I fiati: figli di un dio minore?

Nei lunghi e comatosi giorni di isolamento appena vissuti a cagione dell’emergenza Covid, ho trascorso come tutti molto tempo a pensare, curiosare su Internet, ascoltare musica e concerti in streaming; ma anche a pormi domande…
Una tra le tante, attinenti al contesto musicale così ferocemente martoriato da questo periodo infausto, che si è manifestata prima timidamente per porsi infine a più riprese, è la seguente: esiste oppure no, all’interno del sistema musicale, una sorta di discriminazione nei confronti degli strumenti a fiato e/o dei musicisti che hanno scelto di declinare la propria sensibilità artistica attraverso tali specifici veicoli? Lo strumento è o non è semplicemente, per l’appunto, uno “strumento” ovvero un mezzo atto a veicolare il proprio messaggio musicale basato sul rispetto della partitura? Esistono “arnesi della musica”, come li chiamò Leonardo Pinzauti in un famoso saggio, più degni di altri arnesi? Strumenti più strumenti di altri strumenti? E, ammesso che tale discriminazione esista almeno in qualche misura, si tratta di un fenomeno solo italiano o anche internazionale?

Ad essere sincero, mi sono reso conto in realtà che da molti anni mi faccio questa domanda, alla luce di diverse angolazioni e prospettive. Si ricorderà come, fino alla recente riforma dei Conservatori, ai fiati fosse attribuito un percorso di studi inferiore rispetto a quello degli altri strumenti, e spesso anche più misero di materie cosiddette “complementari”, ma che in realtà avremmo dovuto chiamare sostanziali: quali sono l’armonia, il pianoforte complementare e altre. C’è di più: perfino all’interno della stessa categoria dei fiati vi erano differenze. Gli ottoni potevano diplomarsi ancora più velocemente dei legni. Imperava insomma la vecchia concezione, che ai più giovani oggi appare preistorica, o forse marziana, basata su una presunta – e naturalmente mai dimostrata – maggiore difficoltà di alcuni strumenti rispetto ad altri.
Se la suddetta riforma ha prodotto effetti in parte discutibili, ha sicuramente tra i meriti quello di aver posto fine a questa sonora sciocchezza.Ma torniamo alla questione: allignano tuttora residui di questa mentalità nella sensibilità comune, nella considerazione generale, o peggio ancora nelle cosiddette stanze dei bottoni o nei centri di quel piccolo – se comparato a altri – potere che pur muove le fila del mondo musicale?
Non lo so.
Ma ecco di seguito tre esempi che mi hanno fatto pensare.

È di attualità la bella notizia che al Quirinale la ricorrenza della Festa della Repubblica segnerà una piccola speranza di rinascita per noi musicisti, dopo la fase uno della tragedia Coronavirus. Un grande direttore, Daniele Gatti, condurrà per l’occasione un piccolo ensemble in un programma misto dal barocco al moderno. L’ensemble, così recita la notizia, sarà formato da una quindicina di soli archi. Si tratterà sicuramente di un momento toccante, dedicato alle migliaia di vittime innocenti della più grande tragedia collettiva dal nostro dopoguerra. La scelta di utilizzare un piccolo ensemble formato di soli archi da cosa sarà dettata?, mi chiedo. È basata su direttive scientifiche suffragate da sperimentazioni effettuate durante la fase uno? È suggerita dal principio di prudenza (i fiati emettono aerosol, goccioline, saliva, condensa quindi nel dubbio meglio evitare?). Oppure ancora è determinata dal fatto che, dovendo per forza scegliere ed essendo nell’incertezza, si opti per un ensemble di strumenti considerati più “sani” e/o più consoni alla solennità del momento?
Poi penso al sublime “Begräbnis-Gesang” di Brahms, il canto di sepoltura (coro + tredici fiati, solo uno di cento esempi possibili), e suppongo che l’ultima spiegazione sia un po’ irrazionale… Naturalmente non lo so: il mio è solo un interrogativo che sarei genuinamente curioso di sciogliere. Diciamo che mi corre l’obbligo patriottico di immaginare – o sperare – che la scelta sia dovuta a direttive sanitarie incontrovertibili e date per assodate. Altrimenti perché non utilizzare un ensemble misto archi-fiati, più rappresentativo senz’altro delle compagini orchestrali che tutti dicono di rimpiangere e di volere al più presto nuovamente attive sui palcoscenici del nostro Paese? Bene: si tratterà di una questione scientifica. Ma allora come mai l’orchestra che per tutti noi musicisti rappresenta da sempre l’Olimpo, ovvero quella dei Berliner Philarmoniker, non più tardi di tre settimane fa ha programmato ed eseguito sotto la direzione del proprio chef-dirigent Kirill Petrenko una versione della IV sinfonia di Mahler per Ensemble misto archi-fiati (oltre ad altri concerti cameristici molti dei quali inclusivi dei fiati)? Certo, erano tutti a debita e notevole distanza, com’è evidentemente d’obbligo tanto al supermercato o al ristorante quanto su un palco. Ma se i fiati fossero in assoluto gli untori del contagio non li avrebbero utilizzati, così almeno suppongo, vista la cura scientifica che la municipalità di Berlino, da sempre attentissima alla risorsa costituita dalla Musica, sta mettendo in atto. Meno che meno li avrebbero utilizzati se li avessero considerati strumenti artisticamente secondari, dato lo sterminato repertorio esistente per soli archi.
Ma che succede in Germania, forse diversamente da qui?

Nel centro studi di fluidodimanica computazionale di Erlangen sono state effettuate numerose sperimentazioni sul rilascio di aerosol dei fiati basate sull’attento studio delle correnti d’aria: studio commissionato dai Bamberger Symphoniker in collaborazione con l’Ospedale dei musicisti di Friburgo. Altrettanta sollecita attenzione al problema è stata dimostrata a Berlino dall’Università Charité, alla quale è stato commissionato uno studio apposito dalle sette orchestre berlinesi che giustamente (perché non possiamo prendere esempio?) si sono associate per approfondire il problema in termini razionali e scientifici. La coesistenza di strumenti diversi è possibile e la distanziazione va semplicemente commisurata a specifiche caratteristiche nell’emissione del suono di alcuni strumenti rispetto ad altri, è stato l’esito. Mi viene spontaneo chiedermi: da noi è stato mai aperto un tavolo tecnico in cui una commissione tecnico scientifica si sia ufficialmente pronunciata sulla base di analisi altrettanto fondate, e avendo come necessaria controparte i musicisti stessi? O per comodità di approssimazione si è semplicemente deciso che i fiati, utilizzando aria per suonare, siano più pericolosi per definizione? È stato forse ritenuto antieconomico o non necessario approfondire il problema? Non lo so e mi piacerebbe sinceramente conoscere la risposta.

A giudicare dalle prime timide programmazioni di cui si ha notizia all’alba della Fase 2 sul territorio nazionale, sembrerebbe però che la scelta ricada con frequenza un po’ sospetta su piccoli ensemble di soli archi, come su un bene-rifugio che accontenta tutti o quasi senza creare troppi mal di pancia. Staremo a vedere e spero di sbagliarmi. In ogni caso continuo a non avere risposta alla mia domanda.
Nelle mie peregrinazioni-Covid sul web, un bel giorno sono casualmente capitato sul sito di una delle più illustri e antiche Istituzioni musicali del nostro Paese: l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Era molto tempo che non visitavo questo sito, e con piacere mi sono dedicato alla lettura di un menu molto ricco. A un certo punto sono incorso nell’elenco degli Accademici, che non avevo mai osservato con la dovuta attenzione: ovvero la lista degli illustri Maestri che hanno onorato il Paese dedicando la propria vita all’arte musicale. Ho scorso i nomi, e naturalmente, nessuno escluso, si tratta di celebrità assolute ed indiscutibili, veri e propri modelli per generazioni di musicisti italiani, quorum ego.
A un attento esame, però, pur animato dalle migliori intenzioni, non ho potuto non notare qualcosa che un po’ mi ha stupito e impensierito allo stesso tempo. Nel novero dei Maestri si trovano strumentisti ad arco, pianisti, compositori, cantanti, direttori d’orchestra, registi, critici musicali, musicologi e religiosi. Si tratta di quasi settanta persone. Non vi è nemmeno uno strumentista a fiato. Per carità, non mi aspettavo certo di trovarne due o tre. Ma nemmeno uno?
Come posso non chiedermi ancora una volta: perché?
Forse perché i fiati non sono per definizione accademici?
Perché dispongono di un repertorio meno importante o considerato tale?
Perché sono più “facili”?
Perché nessun musicista tra i fiati italiani ha mai raggiunto un indiscusso livello di eccellenza e rinomanza?
Non riesco a darmi una risposta. Allora chiedo a me stesso: conosci tu almeno alcuni musicisti che, estrinsecando la loro arte attraverso uno strumento a fiato anziché un altro di diversa natura, abbiano raggiunto livelli straordinari, si siano fatti onore nel mondo e abbiano dato orgoglio al loro Paese? Mi rispondo sinceramente che no: non ne conosco “alcuni”. Ne conosco molti. E mi viene spontaneo fare mente locale su tali nomi, sebbene certo ne dimentichi più di quanti ne ricordi, nell’ottundimento mentale causato da questa troppo lunga clausura… Mi viene in mente Daniele Damiano, che da innumerevoli anni fa capolino dal primo leggio di fagotto dei Berliner Philarmoniker. Per rimanere allo stesso strumento, mi sovviene Sergio Azzolini, solista affermato da almeno trent’anni. Silvia Careddu, che un buon numero di anni fa ha vinto il primo premio al Concorso Internazionale di Ginevra e ha fatto il primo flauto in alcune tra le principali orchestre europee. Mario Caroli, che da decenni vive una carriera di solista internazionale e insegna in una delle Accademie più importanti di Germania. E poi Alessandro Carbonare, Calogero Palermo, Alessio Allegrini, Davide Formisano, Giovanni Antonini… e qui mi fermo perché l’emergenza Covid mi affatica il cervello ma potrei continuare.

Nemmeno tra i membri onorari vi è uno strumentista a fiato.

Penso allora a Heinz Holliger, Sabine Meyer, Emmanuel Pahud, Martin Fröst, Radovan Vlatkovic. Mi chiedo: si tratta forse solo di semplice disinformazione? Una ragione ci deve pur essere, e forse sta nel fatto che vi è una scala gerarchica, a me ignota ma evidentemente suffragata da un valore assoluto, per la categorizzazione delle eccellenze raggiunte dai grandi musicisti. Naturalmente qualunque gruppo ha la piena libertà di scegliere chi possa o non possa farne parte, così come per contro rimane ampiamente legittimo, per un osservatore esterno, porsi delle domande su queste scelte. La prossima domanda è: perché in molti Paesi, specie i nord-europei, che vantano una tradizione musicale e performativa se non antica come la nostra sicuramente non meno eccellente, i musicisti sono considerati tali – o meno – indipendentemente dallo strumento che il caso o una loro deliberata scelta ha loro messo in mano? E perché in tali luoghi, in maniera del tutto naturale e ovviamente se se lo meritano, i musicisti assurgono a livelli di notorietà ed opportunità lavorative del tutto indipendenti dalla tipologia strumentale? Penso ad esempio all’idolatria forse persino eccessiva che in alcuni Paesi nordici viene tributata da molti appassionati agli strumentisti delle più celebri orchestre, quale che sia il loro strumento, fiati inclusi se non per primi, e ho l’impressione che, sempre ammesso che esista, tale fenomeno di sottovalutazione sia forse una caratteristica piuttosto italiana. Forse ancora discendente, almeno “sub-limine”, dalla sopra citata classificazione scolastica di epoca remota? Altra domanda senza risposta.
Se poi prendiamo in esame le programmazioni degli Enti distributori di concerti, salta all’occhio una certa qual diffidenza o autocensura verso l’ingaggio di strumentisti a fiato nelle proposte di Stagione. Questo anche nel “pre-covidico”, come direbbe Stefano Massini, inventore di questa felice definizione. Ho avuto il privilegio per vent’anni (1993-2013) di far parte di un gruppo di fiati forse non del tutto ignoto ad alcuni, il Quintetto Bibiena. Ricordo che lo sforzo di sdoganamento di un gruppo come il nostro presso alcune Società di Concerti fu talvolta improbo. Non dimenticherò mai il commento del direttore artistico di una blasonata Stagione dopo un nostro recital salutato da un vivissimo successo del pubblico in sala: “avete suonato benissimo, ma non posso reinvitarvi più in futuro”. “Perché?”, fu la nostra domanda un po’ stupita visto l’esito del concerto. “Perché alcune decine di abbonati non sono venuti, i fiati non interessano”.
Viva la sincerità.
Certo, specie per gli addetti ai lavori è ben più ispirativa, rispetto alla media della letteratura per fiati, l’integrale dei quartetti di Beethoven o dei Preludi e Fuga di Bach; produzione immensa che personalmente non mi stanco mai di ascoltare: inevitabilmente, però, con gli strumenti fruitivi di un musicista professionale. Ma l’esperienza mi insegna che molto spesso, per l’ascoltatore appassionato ed inevitabilmente meno strutturato di chi fa musica per lavoro, scoprire attraverso esecuzioni appassionate repertori forse meno alti e consueti ma talvolta più accessibili e comunque diversi, costituisce spesso un’arricchente boccata d’ossigeno, inapettata nella sua freschezza e novità, che nulla toglie alla necessità di tornare più e più volte a ragionare sull’assoluto. Per tacere poi del ruolo preminente, anche a livello di qualità poetica, cui i fiati sono assurti nella musica contemporanea e d’avanguardia.
Esiste allora una qualche discriminazione o, a voler essere generosi, distrazione del mondo musicale nei confronti dei fiati?
Purtoppo, allo stato attuale e dopo tutte queste riflessioni ho l’impressione che sì, ancora in parte esiste e resiste, come un pigro orpello del passato, totalmente immotivato… È questa una cattiva notizia? Un po’ sì, ma forse non del tutto: proprio perché molto si può fare ancora, sta ora alle menti aperte dei nostri giovani musicisti, di qualsiasi provenienza, genere e… scelta strumentale, contribuire al necessario adeguamento di mentalità.

M° Giampaolo Pretto
direttore d’orchestra, flautista e compositore
(pubblicazione per gentile concessione del Maestro)

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